Appunti dal convegno del
18 ottobre 2012
Giuliana Pupazzoni,
Direttore Generale Ufficio Scolastico Regionale Liguria
Ci ha molto colpito l’adesione massiccia a questo seminario, circa 150 partecipanti. Significa che c’è un bisogno diffuso. La scuola dell’autonomia sta ancora faticosamente cercando un suo ruolo e una sua fisionomia ed è stretta dentro una struttura rimasta vecchia perché se pensiamo agli organi collegiali – che sono frutto di una cultura degli anni ’70 dove ancora la scuola dell’autonomia doveva essere pensata e oggi resistono ancora – evidentemente non sono più organismi adeguati a quella che deve essere la vera autonomia della scuola, così come non è adeguata la struttura stessa della scuola. Pensiamo per esempio della carriera dei docenti, che non prevede figure intermedie e quindi non riconosce le figure che si impegnano in altri ruoli. C’è un bisogno forte di un rinnovamento nei ruoli, nelle figure, nell’impegno e quindi anche un bisogno di discuterne insieme. E l’altro motivo credo che sia piaciuto è la metodologia che viene seguita in questo tipo di iniziativa, che non è impostata con seminari e comunicazione unilaterale, ma ha un’impostazione laboratoriale dove si possono scambiare le esperienze, dove si può parlare dei problemi concreti, reali e quindi c’è l’aspettativa a trovare risposte ai problemi che ogni giorno chi lavora nella scuola si trova di fronte.
Angela Pastorino,
Dirigente Scolastico dell’Istituto Caboto di Chiavari e dell’Istituto Comprensivo di Cogorno
Presenta il progetto SGOLC, School Governance to build a Learning Community. E’ un progetto nato nell’ambito della Comunità Europea e pensato per la formazione dei dirigenti e delle figure di sistema. E’ nato con la conoscenza a distanza dei partner e una visita preparatoria e Verona nel novembre 2009. Il cuore del progetto è una nuova visione della scuola.
Negli ultimi anni si è cercato di aziendalizzare la scuola: certo è un sistema da organizzare e gestire, ma la scuola è altro. La scuola è una “comunità di apprendimento” dove tutti si devono sentire parte integrante e protagonisti del progetto di istruzione, formazione ed educazione delle nuove generazioni (ma non solo: ci sono anche gli adulti e il carcere).
Per trasformare le scuole in comunità di apprendimento occorre dare ai leader scolastici competenze pedagogiche e competenze manageriali.
Il progetto si è articolato in due fasi: una fase di ricerca da parte di tutte le nazioni partner del progetto su quelle che erano ritenute le competenze essenziali necessarie ad un leader scolastico perché la sua scuola diventi una comunità di apprendimento fortemente radicata sul territorio. La seconda fase è stata la creazione di questo modello di formazione che poi dovrà essere disseminato all’interno dell’Unione Europea.
I partner del progetto sono il Consorzio degli Istituti Professionali (www.consorzioprofessionali.it), a cui aderiscono anche diverse scuole della Liguria. Questo consorzio è un esempio di come possono funzionare le reti di scuole. Altri partner sono l’Università di Brescia, l’Università di Stoccolma e altri.
A Genova nel 2011 c’è stato un focus group che ha coinvolto dirigenti, docenti, alunni, genitori e stakeholder tra cui rappresentanti della Regione, della Provincia, dell’Ufficio scolastico regionale, delle associazioni sindacali e dell’impresa. I focus group sono stati realizzati in contemporanea anche nelle altre nazioni.
Le domande:
1. Ritieni che la scuola sia ben integrata nella comunità locale?
2. C’è qualcosa che si può fare per migliorare i rapporti con la comunità locale?
3. Descrivi il ruolo della categoria a cui appartieni nella
4. Quali abilità pensi siano necessarie a un dirigente scolastico e ai suoi collaboratori in una scuola più vivace e partecipativa?
5. Quali abilità pensi siano più necessari ai più stretti collaboratori della dirigenza?
Nel 1° meeting internazionale, che si è svolto a Chiavari e in quello di Brescia sono stati analizzati i risultati dei focus group. Confrontandoci con i partners stranieri ci siamo resi conto che per loro la valutazione è un fatto scontato, da noi se ne parla continuamente, ogni anno si dice adesso si fa, ma poi resta sempre una sperimentazione, non si porta mai a regime.
Il secondo meeting internazionale si è svolto ad Atene, nei giorni caldi della protesta. Il corso di formazione è stato testato una prima volta a Verona, poi c’è stato un terzo meeting internazionale a Utrecht, dove si è stabilita la forma finale del corso, che è strutturato come un percorso modulare in quattro aree. Poi 3 seminari di disseminazione del corso di formazione, tra cui questo incontro di oggi. Nelle altre nazioni è stata fatta un’analoga attività. Per me è stata un’esperienza bellissima, che mi ha consentito di confrontarmi con le altre realtà interrogandomi su quello che ho fatto in questi anni e su quelle che sono le mie convinzioni. E’ stata una formazione continua perché confrontandoci continuamente con gli altri abbiamo imparato tantissime cose e abbiamo superato quella situazione di solitudine che lamentiamo spesso noi dirigenti.
Simona Franzoni,
Docente di Economia e Management dell’Università di Brescia
La visione di impresa è utile per avere una forte spinta all’efficienza e di qualità di prodotto al fine di avere sempre una gestione di consenso per avere risorse da investire continuamente in azienda. Credo che la scuola non debba essere concepita come un sistema imprenditoriale spinto volto solo a misurare l’efficienza come oggi è il rischio di alcuni paesi europei (in Olanda ad esempio la forte privatizzazione ha portato istituti a muoversi verso grosse aggregazioni di scuole fino ad arrivare a gruppi di scuole con consigli di amministrazione – quindi veri e propri gruppi aziendali – e dove la forte spinta all’efficienza ha compromesso risultati di qualità e ha favorito una forte autoreferenzialità interna a scapito delle relazioni).
Cercherò di farvi capire cos’è per noi una “comunità di apprendimento”, il suo modello organizzativo (il network), il modello di governance sviluppato e il modello formativo a supporto (al quale siamo arrivati partendo dal basso, dai risultati del focus group: capire che cosa sono le relazioni tra scuola e comunità locale, se funzionano o no e perché, poi i processi decisionali interni e il coinvolgimento degli stakeholders: lo studente, l’insegnante, il dirigente, tutti i collaboratori che coinvolgo nelle decisioni scolastiche, e gli altri soggetto esterni che caratterizzano la comunità locale che ruolo hanno? Per chiudere alle competenze che dagli attori che vivono la scuola nel quotidiano sono state messe in rilievo come competenze necessarie caratterizzanti la stessa scuola)
Una comunità di apprendimento è caratterizzata da un gruppo di persone che condivide informazioni ed esperienze e dove ciascuno apprende dagli altri (ogni persona mette del suo e questo suo porta a creare valore aggiunto a tutto il gruppo). Una seconda definizione sottolinea il fatto che questa comunità deve essere proiettata verso obiettivi comuni.
Nella scuola chi sono queste persone? Dirigenti, personale docente e amministrativo, studenti, famiglia, strutture sanitarie, Ministero, regione, Provincie, Comuni. Tutti questi dovrebbero avere un obiettivo comune: portare a fare sì che tutti gli attori della learning community sviluppino conoscenze e abilità e attitudini per la realizzazione e lo sviluppo personale, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione. Che sono poi le competenze richieste dall’Unione Europea.
Poiché tutti questi attori devono avere un obiettivo comune, il modello organizzativo perché la learning community possa perseguire è il network. In esso ogni attore ricopre un ruolo fondamentale. Sistema a rete che vive grazie a tre elementi di base:
1. Nodi
2. Connessioni
3. Codici, regole, modalità operative
Quali sono i legami che legano i diversi nodi? Per esempio, qual è il nodo che lega la famiglia alla scuola? Perché partecipa alla progettazione delle attività, perché partecipa ai processi di verifica delle varie attività. E’ importante capire il ruolo di ciascun attore e il livello di importanza in funzione dagli obiettivi da perseguire: siamo orientati ad avere obiettivi connessi alla mobilità degli studenti per favorire la comprensione delle lingue straniere oppure abbiamo altri obiettivi connessi alla dispersione scolastica, al bullismo o alle forme di dipendenza? In funzione ai diversi obiettivi da perseguire con dei risultati da raggiungere vado a identificare le connessioni.
Il terzo punto è definire delle regole e dei codici di comportamento (attraverso degli accordi formali o non formali: convenzioni, accordi di programma, l’esistenza di un comitato di gestione, organismi di coordinamento, ecc.) e poi decidere quali strumenti di comunicazione e condivisione delle informazioni? (Incontri, reti telematiche, sistemi informativi che mettono in relazione le diverse realtà che sono coinvolte e via dicendo).
Una volta fatto questo è necessario che il sistema elabori il suo modello di governance. Il modello definito “Education Network Governance” è l’insieme di attività sviluppate dagli autori della rete per ottimizzare le performance (che possono essere limitare la dispersione scolastica in un determinato territorio, fare sì che i ragazzi utilizzino in modo critico le informazioni che arrivano dalle nuove tecnologie o fare sì che i ragazzi abbiano un buon apprendimento delle lingue straniere visto che metà dei ragazzi che arrivano all’università non riescono a superare i test di ingresso di inglese). Deve essere caratterizzato da tre componente:
STRUTTURA: abbiamo degli organismi di coordinamento? Da cosa dipende la nostra rete? Chi può essere il soggetto che governa queste reti? Potrebbe essere un organismo di coordinamento che presidia alle diverse reti che si posizionano sul territorio.
RISULTATI: misurazione e valutazione dei risultati della rete
PROCESSI: insieme coordinato di decisioni e azioni per rispondere in modo efficace alle attese.
Ogni “nodo” che in quel momento fa parte della rete si impegna a trasferire nella propria organizzazione (scuola, comune, ente, impresa, ecc.) gli obiettivi da perseguire concordati a livello di rete. Qui subentra il ruolo del dirigente che condivide con gli organi collegiali un certo orientamento e delega agli attori che rivestono un ruolo di responsabilità (coordinatori, collaboratori, funzioni strumentali) e che quindi attraverso questo trasferimento di agire porti allo sviluppo di ulteriori comunità di apprendimento all’interno della scuola. Quindi comunità di apprendimento viste non solo come meccanismo coinvolgimento di attori interni ed esterni alla scuola, ma in primis un modus operandi che deve contraddistinguere il contesto interno. Quindi la funzione strumentale, che in base alla rete ha coinvolto altre scuole, organizzazioni no-profit, specialisti o strutture sanitarie come l’Asl, si faccia promotrice all’interno della propria scuola di portare avanti questo obiettivo con determinati risultati. E’ chiaro che il dirigente scolastico non può essere ovunque e i problemi che caratterizzano la scuola sono sempre più importanti, urgenti e difficoltosi, però attraverso meccanismi di delega e processi di misurazione della qualità del risultato, si deve trasferire, motivare i comportamenti verso finalità comuni.
Da qui partono i nostri primi interrogativi e l’azione rivolta a capire che cosa ne pensano gli attori che sono in primis coinvolti nell’ambiente scolastico. L’obiettivo del nostro percorso formativo era stimolare i dirigenti scolastici e coloro che rivestono un ruolo di responsabilità nella scuola a costruire, sviluppare e mantenere comunità di apprendimento nel proprio territorio. Mediante che cosa?
• Capire, fare proprio il concetto di learning community
• Capacità di motivare tutti gli stakeholders a contribuire allo sviluppo di comunità di apprendimento condividendone gli obiettivi
• La capacità di implementare le tre dimensioni che ho citato prima (struttura, processi, strumenti)
• E poi la capacità di mantenere viva la comunità di apprendimento attraverso motivazioni, incoraggiamento, ma anche attraverso processi strutturati sui risultati raggiunti e una comunicazione trasparente degli stessi.
Da qui le tre domande che abbiamo rivolto agli stakeholders nei focus group. Ecco una sintesi delle risposte.
1) Secondo voi la vostra scuola è ben integrata nel territorio circostante?
I dirigenti hanno risposto che le loro scuole sono ben integrate.
Gli insegnanti hanno detto che una maggiore stabilità della dirigenza scolastica consente una solida cooperazione con le famiglie e il territorio.
Gli stakeholder del territorio (Province, Comuni, rappresentanti della Confindustria, dell’Associazione nazionale presidi, associazioni e sindacati) esprimono un’opinione positiva, pur consapevole della presenza di scuole ancora isolate a causa delle scarse attività del dirigente scolastico. Gli enti locali sostengono che le scuole non capiscono il loro ruolo come mediatori di processi di costruttori di rete. Esiste una dispersione dei ruoli tra i diversi organismi presenti sul territorio, quindi la sovrapposizione su alcune attività e la necessità di un coordinamento per meglio gestire ed evitare sovrapposizioni. La scuola non sembra in grado di comunicare valore prodotto nei processi di apprendimento attivati per il miglioramento continuo.
Gli studenti in maggioranza dicono che la scuola è isolata, con poche relazioni col mondo esterno, se ci sono iniziative sono frutto dell’iniziativa del singolo e non come visione globale e strategica della scuola.
I genitori dicono che la scuola è ben integrata nel territorio e nel mercato del lavoro. La critica è sui curricula scolastici: alcuni sono vecchi e non in linea con le richieste delle imprese.
2) Descrivete il ruolo della vostra componente nei processi decisionali della scuola
I dirigenti dicono che hanno un ruolo rilevante in tutti gli aspetti dei processi decisionali.
Gli insegnanti sostengono di avere un ruolo formale e non sostanziale nei processi decisionali. C’è l’assenza dei processi di delega e della definizione dei ruoli: spesso c’è confusione, non si capisce chi deve fare. Si chiede l’identificazione precisa dei ruoli e la misurazione dei risultati.
Gli studenti sostengono che sono poco presenti nelle decisioni prese dall’Istituto. Maggior ascolto con studenti preparati e informati: se lo studente si informa e va a leggersi la normativa e quindi sanno rapportarsi col dirigente allora può essere ascoltato.
I genitori evidenziano un ruolo formale e non sostanziale nei processi decisionali e uno scarso interessamento alle attività scolastiche, quindi c’è una consapevolezza di un disinteresse alla scuola.
3) Quali competenze dovrebbe avere il dirigente scolastico per dare un contributo positivo alla scuola e in particolare al miglioramento dei processi di apprendimento?
Le risposte più votate sono state:
1) Capacità manageriale (capacità di gestione delle risorse, abilità nel valutare, organizzazione, saper rendere conto del proprio operato, conoscenza delle regole giuridiche, ecc.)
2) Leadership (affidabilità, stabilità, carisma, pazienza, esperienza, autoanalisi, visibilità, intelligenza, ecc.)
3) Competenze pedagogiche (chiara visione pedagogica)
Il modello formativo che noi proponiamo si basa proprio su questi tre ambiti. Sito da consultare per vedere la struttura del corso: www.sgolc.eu.
Attilio Orecchio,
Coordinatore generale del progetto
Sul sito di SGOLC trovate tutto lo strumentario per ripetere nella propria scuola l’esperienza del focus group, che permette un’autoanalisi del proprio contesto scolastico su tre aspetti: il rapporto tra la scuola e il territorio, la democrazia interna e le competenze attese dal leader e dai suoi più stretti collaboratori.
A novembre si troverà gratuitamente il corso formativo tradotto in italiano con accanto un digital handbook con tutti i materiali di supporto per realizzarlo. Il percorso formativo per i dirigenti e i loro collaboratori è stato pensato in forma modulare per permettere alle singole scuole o alle reti locali di scuole di implementarlo tutto o di implementare solo quei blocchi che ritengono più utili per il loro contesto.
Venendo ai contenuti della mia relazione, permettetemi di recuperare il concetto di learning community sul versante più pedagogico e della leadership. Prendiamo un concetto ripreso dalla scienza dell’organizzazione aziendale: le aziende migliori sono quelle che organizzano il lavoro come un processo di discussione e apprendimento continuo tra i lavoratori, o almeno tra i team dei lavoratori più qualificati, e quindi un processo dove non la competizione tra individui – che è stato un po’ il leit motiv dell’organizzazione aziendale statunitense negli anni ’80 – ma al contrario la collaborazione tra i partecipanti del team è l’elemento fondamentale di successo, l’humus sul quale cresce l’azienda e il veicolo spesso della crescita dell’azienda. Ora, questo concetto che viene dal mondo del business tradotto sul piano della scuola statunitense ha portato alla costruzione di alcune scuole come comunità di apprendimento, cioè luoghi dove gli studenti e i loro docenti apprendono insieme, lavorando su un piano di sostanziale parità. E’ un modello scolastico che scardina la visione tradizionale della scuola a partire dal Medioevo: l’insegnamento come trasmissione di conoscenza tra persone esperte a singoli molto meno esperti, l’atomismo dello studente e anche la competizione tra gli studenti intesa come stimolo per il successo individuale.
Ogni scuola dovrebbe puntare a diventare un sistema di learning community. L’unità fondamentale dovrebbe essere la classe, il gruppo alunni, dove gli studenti apprendono attraverso una didattica attiva, motivante e quindi fatta prevalentemente di ricerca, di problem solving e di apprendimento cooperativo. Una didattica il meno possibile trasmissiva ma laboratoriale, cooperativa e orientativa.
Quando prima Simona parlava del dato del test di selezione dell’inglese all’Università pensavo ma come è possibile che questi nostri ragazzi che ascoltano musica prevalentemente in inglese da quando sono piccoli in poi non riescono a passare il test di inglese all’Università? E’ mancato del tutto l’aggancio con la vita reale.
In una classe che si organizza come learning community il docente è il REGISTA e il FACILITATORE di un contesto di apprendimento, e quindi gli vengono richieste competenze molto più raffinate sul piano della costruzione del GIUSTO CLIMA DI APPRENDIMENTO.
Ovviamente una classe che funziona come learning community non punta a un apprendimento omogeneo, standardizzato per tutti gli studenti, ma punta a stimolare il successo formativo di ogni studente secondo i suoi interessi e la sue individualità. Il successo individuale viene perseguito attraverso il successo del gruppo. Il background psicopedagogico è la teoria di Gardneer sulle intelligenze multiple: non ci sono studenti stupidi e ragazzi intelligenti, ma ci sono studenti ciascuno dei quali possiede un diverso mix di intelligenze in crescendo, noi possiamo perseguire il successo di tutti ricordandoci quel grande insegnamento che ci ha lasciato Don Lorenzo Milani: la scuola non deve essere l’ospedale che cura i sani e respinge i malati, ma al contrario è il luogo dove fondamentalmente si realizza il dettato costituzionale (la Repubblica rimuove gli ostacoli che si frappongono alla giustizia e all’uguaglianza fra tutti i cittadini).
Ora, se ogni classe è una learning community questo non basta, ma nella nostra visione sistemica la scuola ha altre learning community: quella formata da tutti i docenti, che ad esempio discutono, apprendono e crescono insieme sui temi trasversali, per esempio sulla implementazione del curriculum; la learning community dei dipartimenti disciplinari; la learning community dei genitori (o almeno dei genitori più attenti e partecipi); la learning community dei rappresentanti degli studenti. Quindi la scuola si concepisce come sistema di learning community al cui centro vi è quella fondamentale learning community che gli inglesi chiamano il LEADING AND STEERING GROUP, cioè il gruppo che regola e coordina la comunità di apprendimento (dirigente + stretti collaboratori, direttore dei servizi, funzioni strumentali). Questo gruppo non è isolato ma interagisce con la comunità locale e quella “glocale”.
Questa utopia della learning community (dico così da una parte perché di scuole organizzate così ce ne sono pochissime in tutto il mondo, ma anche per sottolineare l’esigenza di sogni e vision forti in un momento in cui la realtà burocratica e le riforme in atto ci trascinano verso il pantano e la stasi) richiede una vision della scuola il cui perno è il cambiamento metodologico. Passare gradualmente ma decisamente da una didattica piatta e trasmissiva a una didattica coinvolgente che utilizza massicciamente e consapevolmente le nuove tecnologie.
Noi ci siamo occupati di leadership perché siamo convinti che un bravo dirigente con dei bravi collaboratori siano in grado di influenzare potentemente il lavoro dei docenti e la loro soddisfazione.
A cosa serve un leader?
1) Dà nerbo e solidità, quindi esprime sicurezza e dà sicurezza
2) Rinforza la motivazione dei seguaci e quindi la loro soddisfazione
3) Guida le risorse umane verso gli obiettivi strategici previsti
Se non è queste tre cose è un capo, ma non un leader. Perché ci sia leadership occorre una vision: cosa vogliamo fare della nostra scuola nei prossimi cinque-dieci anni? Il dirigente scolastico deve essere un VISIONARIO. Se manca la vision avremo solo il management, non una leadership.
La scuola che cambia ha bisogni di leader, la scuola che vivacchia tra una circolare e l’altra può accontentarsi di un manager.
Il processo di cambiamento non può che essere graduale, complesso e denso di emotività: denso da un lato di speranze e di soddisfazioni, ma dall’altra parte anche denso di paure, di resistenze – che spesso trovano degli alibi razionali, ma che in realtà nascono dal profondo del vissuto delle persone, dal loro senso di inadeguatezza, dalla resistenza che gli individui hanno verso il cambiamento – e quindi dobbiamo anche cogliere quanto importante sia la competenza relazionale per riuscire a fare emergere queste resistenze e queste paure e aiutare la gran parte degli insegnanti ad affrontarle, a viverle e a superarle positivamente.
Tutta la letteratura scientifica sulla leadership è partita anche dal definire alcuni stereotipi di leader. C’è il leader autocratico, che decide da solo, che crea dipendenza tra i followers, che senza di lui crolla tutto, che può creare anche demotivazione e alienazione per il suo modo di fare, ma che può essere anche molto utile in alcune situazioni di emergenza: quando un leader arriva in una scuola devastata da crisi e problemi del passato è molto importante che appaia come una donna decisa, sicura dei propri obiettivi (ho detto “una donna” prendendo atto della composizione della dirigenza scolastica, ma anche fedele ad un ordine burocratico dell’allora Presidente del Consiglio Giuliano Amato, fedele a una bellissima direttiva sul linguaggio burocratico dove si raccomandava che quando ci si rivolge ad una platea dove le signore sono in maggioranza si deve usare il femminile!). In alcune situazioni di crisi può essere molto utile un leader autocratico ma se quel leader autocratico poi non evolve in altri stili di leadership diventa presto un tappo alla crescita di altre risorse umane, diventa esso stesso un fattore di crisi.
Abbiamo poi il leader democratico incoraggia il pluralismo, che consulta, che persuade, e quindi può innalzare il senso di ownership, cioè di appartenere e di essere proprietari, e quindi responsabile della scuola, in ciascun dipendente e perfino in ciascun studente. Però può ritardare il processo decisionale e anche impantanare i processi di cambiamento nelle secche di discussioni infinite.
Abbiamo lo stereotipo del leader paternalista, ormai per fortuna in via di estinzione, ma anche quello è stato uno stereotipo di riferimento per molti dirigenti.
Ora, se noi ci limitiamo a dire che ognuno di voi si deve scegliere il proprio stile di leadership in base alle caratteristiche personali e al contesto in cui si trova ad operare diciamo una cosa ovvia e banale. Conviene piuttosto ragionare sulle caratteristiche che dovrebbe avere collettivamente quella comunità di apprendimento che ho richiamato prima, vale a dire il gruppo del dirigente e dei suoi più stretti collaboratori. Da questo punto di vista il progetto SGOLC ci dice che il modello che può funzionare meglio per il cambiamento metodologico della scuola è quello della cosiddetta “leaderhip trasformazionale”.
1) Articola una vision chiara della scuola in una serie di obiettivi strategici chiari e comunicabili
2) Si dota di una pianificazione a medio termine (non vuole fare tutto subito, ma si segna una serie di passaggi)
3) Sa guidare attraverso l’esempio
4) Adotto lo stile del “Walk and talk”, mi muovo per la scuola, non mi barrico in ufficio, vado anche dove non sono atteso, utilizzo i momenti informali
5) Attraverso la delega cura l’efficienza (e quindi non perde il proprio tempo dietro alle minuzie e agli adempimenti burocratici ma li fa fare ai propri collaboratori)
6) Mette a disposizione tempi, luoghi e processi per una loro partecipazione attiva al processo decisionale
7) Incentiva la collaborazione, che non semina zizzania, che mantiene un atteggiamento di imparzialità e facilita il dialogo tra gli attori del sistema
Conosco bene tutti gli ostacoli che in Italia si frappongono a questo tipo di leadership. La riforma degli ordinamenti non facilita, ma rende più difficile la creazione di comunità di apprendimento, così come il taglio delle risorse umane, il taglio delle compresenze, il progressivo aumento degli alunni per classe, l’aumento della dimensione degli istituti scolastici, lo scandaloso fenomeno delle reggenze. Per non parlare dell’assenza di una reale strutturazione delle figure di sistema, il fatto che nel contratto nazionale ci consentano di dare effettivo peso alle funzioni strumentali, ma non esistano gerarchie interne e quindi chi ha un incarico di quel genere non è nemmeno un primus inter pares, è un coordinatore, è un parafulmine di problemi, ma non è una persona che svolge un ruolo gerarchico e che può intervenire nell’orientare il lavoro dei colleghi. Io non ho mai visto una catena di negozi con un unico direttore e poi nei negozi tutti commessi alla pari. Se c’è una catena di negozio c’è un direttore generale, ma poi c’è un direttore per ogni negozio e un direttore per ogni reparto. Io che vengo dal ’68, e quindi da quella cultura libertaria e democratica, sono convinto che uno dei principali problemi della scuola italiana sia quello di strutturare una gerarchia: legittimata democraticamente, misurata sui risultati, valutata, ma una gerarchia ci vuole, altrimenti nessuna organizzazione funziona. E non ci può essere una donna sola al comando, o un uomo, nel caso (!).
Come facciamo a spingere sul cambiamento metodologico se non si risolve un equivoco di fondo sul significato della libertà di insegnamento, questo sacrosanto principio costituzionale. La libertà di insegnamento si riferisce a tutto o si riferisce ai giudizi di valore? Al fatto che un insegnante è libero di dire “Hegel, Marx, Habermas sono stati i più grandi filosofi della storia” oppure dire “Hanno sbagliato tutto”: questa è la libertà di insegnamento, e poi la deontologia spinge il docente a dare agli studenti gli strumenti per farsi anche un’opinione diversa o contrapporsi alla sua. Ma la libertà di insegnamento non può estendersi alla metodologia. In nessun altro paese europeo succede questo. Allora sciogliere questo nodo ci aiuterebbe a costruire comunità di apprendimento.
Il problema è politico, ma non possiamo aspettare la grande riforma della Riforma. Le scuole autonome devono organizzarsi così come i Comuni sono organizzati nell’ANCI per premere insieme sul Parlamento, sul Governo e far sentire la propria voce sulle riforme in atto. Però contemporaneamente ciascuno di noi può cercare di costruirsi un ambito del possibile e poi cercare di costruirlo nella propria scuola.
Io devo dire che all’inizio del progetto e nei primi mesi ero molto confuso e perplesso perché temevo che stessimo facendo un mero esercizio di fantasia: volavamo alto e invece in Italia stavano andando avanti dei processi di riforma reale che andavano in tutt’altra direzione. Però la vostra partecipazione di oggi così ampia e così qualificata, insieme al seminario di Verona sabato scorso con altrettanta partecipazione, a quello di Brescia e a quello di Cervia, tutto questo mi ha dato
Penso che nonostante tutti gli ostacoli potentissimi che incontriamo nel nostro lavoro quotidiano la capacità di resilienza delle scuole è ancora molto forte e la voglia di guardare oltre all’emergenza è il fattore che ci può consentire di migliorare e trasformare le nostre scuole.
Question Time
D. Alcuni partecipanti esprimono perplessità sull’importanza data alla competenza manageriale come principale competenza richiesta al dirigente scolastico a scapito della competenza pedagogica.
R. (Angela Pastorino)
La condizione italiana è un po’ particolare per cui per diventare dirigente scolastico si deve essere insegnanti, cosa che non è così negli altri Paesi. Sono pienamente d’accordo sul fatto che le competenze pedagogiche siano essenziali per un dirigente, anche per poter svolgere il ruolo di leadership nel campo della pedagogia della scuola.
(Attilio Orecchio)
Tra le tante competenze manageriali che sono necessarie a un dirigente, ce ne sono due basilari che spesso i dirigenti scolastici non possiedono. La prima è la capacità di gestire diversi tipi di riunioni. Una riunione serve e serve e lascia una bella soddisfazione ai partecipanti, alzando anche il livello
di coinvolgimento e motivazione dei partecipanti, se alla fine si ha avuto l’impressione che quella riunione sia servita a qualcosa, e soprattutto a prendere decisioni. E quindi per arrivare a questo risultato, che si tratti di un Collegio dei Docenti, di un Consiglio di Classe, di una riunione coi genitori o con gli studenti, c’è una tecnica per preparare, convocare, gestire e condurre la riunione (anche questo è uno dei “mattoncini” del percorso SGOLC). Per esempio una cosa che si comincia a fare nelle scuole è quella di indicare anche l’ora di termine. Una buona riunione non deve mai durare più di due ore, ma deve essere gestita in modo tale che l’ultima mezz’ora serva a focalizzare le decisioni e il verbale deve riportare le decisioni.
Il secondo aspetto è quello della delega. Io vedo continuamente dei dirigenti che formalmente delegano, in realtà gestiscono molto male la delega, interferiscono continuamente sul lavoro del delegato fino a demotivarlo e delegittimarlo. Quindi anche la delega ha delle regole precise, che partono dal fatto di stabilire insieme gli obiettivi e i confini della delega, di stabilire i momenti di monitoraggio, cioè i momenti di confronto comune, e poi di lasciar lavorare il delegato, senza scavalcarlo. Questo richiede anche pazienza e gestione dell’ansia da parte del delegante, e quindi allenamento interiore.
Poi volevo anche dire che i focus group sono uno strumento tipico per giungere a dei risultati che possono non avere un grande valore statistico, ma possono avere invece un forte valore euristico, che ci avvicina alla realtà e alla profondità dei problemi. Se noi vogliamo sapere che cosa pensano tutti gli studenti della scuola del livello di pulizia dei bagni li dobbiamo intervistare tutti e quindi lo strumento migliore è un questionario anonimo. Ma se vogliamo fare un ragionamento su quali sono i tre aspetti principali di qualità della scuola che interessano gli studenti non è con un questionario, ma è con il focus group o l’intervista diretta che dobbiamo muoverci, decidendo un campione che riteniamo rappresentativo dell’universo studentesco della mostra scuola oppure possiamo scegliere di dialogare con gli studenti più responsabili e attivi o coi più critici. Quindi da questo punto di vista il risultato del focus group non è lo specchio fedele in percentuale delle varie tendenze, ma un momento in cui emergono input fondamentali su cui lavorare. E’ più euristico che statistico, insomma.
SGOLC è stato scelto e finanziato dall’Unione Europea in una selezione che ha visto 50 progetti approvati e non so quanti respinti: gli approvati erano il 15% dei progetti presentati su quella linea di finanziamento quell’anno. Secondo me uno dei motivi per cui è stato scelto in una selezione così severa è che si riprometteva all’inizio proprio questa ricerca sul campo sulle competenze dei leader e dei loro collaboratori, cosa che in Europa probabilmente non è mai stata fatta.
La definizione delle competenze attese è sempre fatta dall’alto: è lo Stato che a seconda della stagione, del mainstream e della riforma da farsi dice: caro preside, non devi essere un burocrate, devi essere un manager, oppure non devi essere un educatore, devi essere un manager. Per la prima volta forse qualcuno ha proposto di andare a chiederlo agli utenti come vorrebbero le cose e anche per questo elemento di novità questo modello di percorso formativo è stato scelto da Bruxelles.
D. Come mai nel Collegio dei Docenti si parla sempre dell’organizzazione della scuola e mai di didattica? Non dovrebbe essere un percorso partecipativo prima di arrivare a una metodologia comune?
R. (Angela Pastorino)
Non è che in Collegio Docenti si debba parlare di metodologie didattiche. Il Collegio Docenti è però il luogo dove si pianificano le attività e quindi una cosa da pianificare è quella della formazione in servizio. Quindi se si vuole indirizzare i propri docenti a un certo tipo di metodologia didattica propongo e sponsorizzo delle attività di formazione mirate a far acquisire ai docenti queste competenze.
(Attilio Orecchio)
Le resistenze al cambiamento sono spesso paure profonde. Un insegnante che da studente è stato un bravo studente con un metodo trasmissivo, cioè è stato bravo a stare attento, ad assorbire e a ripetere, e poi grazie a questa sua capacità si è laureato e ha vinto il concorso, come possiamo chiedergli da un giorno all’altro senza nessuna formazione di diventare il regista dell’ambiente classe? È chiaro che ci vuole formazione, che lui/lei hanno una paura profonda di sperimentarsi in un ruolo sconosciuto. Normalmente la paura nasce da un senso di incompetenza e l’incompetenza si supera con la formazione, il tutoraggio, il supporto. Anche con l’autoformazione. Nelle scuole elementari ci sono fior fiore di esperienze di cooperative learning. Ma perché non cominciamo a dire che colleghi anziani che hanno una storia gloriosa dal punto di vista metodologico possono davvero aiutare i colleghi più giovani con una formazione anche molto pratica, molto sul campo?
Ci possono essere anche stili diversi di insegnamento, è importante nella formazione dei giovani incontrare figure educative importanti che sono diverse nello stile relazionale: il prof in giacca e cravatta,ì e quello con l’orecchino, il prof che entra in classe e fa una battuta, quello più austero. È importante questo pluralismo, anche perché poi il mondo è fatto di adulti diversi. Così come è importante l’adozione di metodi diversi, anche perché poi ci sono materie che hanno bisogno di momenti più trasmissivi e altre in cui l’aspetto del problem solving e del lavoro di gruppo può essere molto più allargato e spinto. Addirittura se ci rileggiamo con attenzione l’articolo 3 del regolamento sull’autonomia del DPR 275 lì viene adombrata l’idea che ogni singola istituzione scolastica possa avere al proprio interno dei filoni diversi, sezioni dove si applica un metodo più tradizionale e sezioni dove si applica un metodo più innovativo. Quindi un’omogeneità di fondo ma anche la possibilità di articolare all’interno dello stesso istituto degli approcci diversi in risposta a diverse richieste dell’utenza. Quindi probabilmente il legislatore stava già pensando ad istituti molto grandi che per la loro dimensione non possono essere perfettamente omogenei al loro interno. Quindi, traslato nel nostro linguaggio, ogni classe dovrebbe essere una learning community, ma queste learning communities possono anche avrfe aspetti differenti l’una dall’altra.
Ogni tanto ci aiuta comparare l’Italia agli altri Paesi. In altri sistemi è possibile che la figura dirigenziale intervenga direttamente sui docenti indicando loro le correzioni da apportare al loro metodo di insegnamento, però anche lì se non si usano gli strumenti del convincimento, della persuasione, del tutoraggio l’insegnante dice “Sì, certo, sir” e poi chiusa la porta continua a fare quello che ha sempre fatto. Non si scappa da questo costruire una situazione di tutoraggio e scambio interno ed interno/esterno di buone pratiche e poi dalla capacità del leader di creare il clima giusto per cui i pionieri del cambiamento metodologico vengono poi seguiti da altri con un effetto a valanga.
D. Una nuova dirigente manifesta il suo disagio: è stata una buona maestra (era insegnante di scuola primaria), ora sta camminando e parlando nei corridoi, questo però la sta sfinendo perché certe cose di didattica spicciola che io come maestra ha dato per scontate non sono così scontate per tutti. Per esempio banalmente la posizione che occorre assumere proprio fisicamente, nello spazio, in una classe difficile. Teme di non capire come fare per non riuscire a scardinare certe cose e condividere le sue riflessioni. Non sa se è capace a svolgere coi suoi insegnanti il ruolo di regista che sapeva fare così bene con i bambini.
R. (Angela Pastorino)
Non fatevi prendere dall’ansia, dalla paura di non riuscire a fare le cose perché le cose poi alla fine si fanno. La presenza a scuola è importante, è importante la cultura della sicurezza. E’ molto più importante educare gli insegnanti a fare le prove di evacuazione piuttosto che non dormire una notte temendo l’arrivo dell’ispezione dei Vigili del Fuoco. Non fatevi prendere dall’ansia in questo senso. Piano piano trovando consenso e parlando con gli applicati di segreteria, i docenti, i bidelli, poi le cose si risolvono. E poi l’autoformazione, che può essere anche in rete: nel Tigullio siamo riusciti a fare qualcosa tra reti di scuole sia sulla tecnologia che sulla didattica.
(Attilio Orecchio)
Io credo che lei sia di fronte al passaggio da un approccio pedagogico a un approccio andrologico: fino ad ora lei come insegnante della primaria ha avuto a che fare con menti flessibili, molto aperte, molto curiose di apprendere e lei come insegnante ha lavorato su questo e ha ottenuto nel corso degli anni delle belle soddisfazioni. Ora ha un ruolo leader nei confronti di adulti e quindi l’approccio deve mutare sapendo che le menti degli adulti sono menti già strutturate, sedimentate, rigide, funzionano per meccanismi paradossali e non per meccanismi logici e allora qui forse ci può tornare utile uno dei concetti su cui abbiamo basato la costruzione del percorso formativo SGOLC, che è la maieutica. Si tratta di un concetto socratico: quello che dobbiamo insegnare ai discenti loro lo sanno già ed è compito del docente tirarlo fuori.
La formazione che funziona con gli adulti non è una formazione trasmissiva e impositiva, ma è una formazione che parte dal loro vissuto, dai loro problemi, dal loro vissuto con la classe. Anziché dirlo lei come dirigente, lo faccia dire alla sua collega anziana: guardate, noi però con i bambini facciamo così, provate a farlo anche con i ragazzini delle medie, scardiniamo le file dei banchi, che sono la visualizzazione della didattica trasmissiva dal docente al singolo studente. In alcuni momenti è necessaria e può funzionare molto bene, in altri momenti no. Cominciamo a studiare l’organizzazione fisica del setting di apprendimento. Però il fatto di insegnarlo a degli adulti che da cinque, dieci, vent’anni fanno in un altro modo comporta anche questo atteggiamento maieutico di far emergere da loro stessi le soluzioni di fronte a quelli che sentono tutti come problemi da affrontare.
R. (Mario Mangini, Direttore della Formazione dell’Ufficio Scolastico Regionale)
L’ufficio che dirigo assicura la massima disponibilità a supportare i dirigenti neoassunti. Venivo da una riunione proprio ieri con oggetto “Attività di formazione per i neodirigenti scolastici” e vi posso assicurare che l’azione formativa che è demandata all’Ufficio Scolastico Regionale in un numero non inferiore a 20 ore verrà studiata e strutturata in modo da non offrire una formazione che non sia sfoggio di eloquenza o azioni irraggiungibili, ma sarà frutto di un’azione come quella che ho visto oggi: qualcosa di testato sul campo.
Anche l’azione della nuova figura del mentor verrà selezionata in modo che possa sempre comunque essere un punto di riferimento certo, un punto di interazione, per vedere di strutturare e risolvere le problematiche insieme. Dovremo individuarli, nominarli e formarli. A dicembre deve essere concluso tutto il ciclo.
D. Un dirigente scolastico che agisco in un ambiente extraurbano dove il legame con gli enti locali apparentemente è stretto, in realtà ha dei problemi. Come l’interazione con gli enti locali può essere costruttive ai fini della gestione e del miglioramento della didattica? Perché è vero che il regolamento dell’autonomia fa riferimento a questa interazione però nella pratica capita di scrivere lettere su lettere per sollecitare lavori per la sicurezza o interventi anche banali di impianto elettrico nei vari plessi.
R. (Attilio Orecchio)
Diciamo pure che il problema è vecchio di 150 anni. Il rapporto tra il sistema scolastico statale e gli enti locali è nato male nel neonato Regno d’Italia perché il Regno d’Italia ha detto dobbiamo fare gli italiani, e quindi voi Comuni cominciate ad aprire le scuole e a pagare i maestri: noi dettiamo i programmi, noi diciamo chi sono i direttori delle scuole e voi autonomie locali eseguite e pagate. Poi ci sono state tante riforme tra Stato ed enti locali in materia di istruzione, fondamentale la tappa del Decreto Legislativo 112 del ’98 che ancora rappresenta il quadro generale di riferimento, però ancora oggi noi viviamo una situazione di pesante frammentazione delle competenze (pensate all’edilizia scolastica) che sicuramente non agevola il governo del sistema.
Però anche qui è fondamentale che riusciamo a far scendere in campo non solo le capacità relazionali del dirigente, ma che riusciamo a far scendere in campo la comunità scolastica come portatrice di interessi forti di cui la politica locale deve tener conto. Tradotto, certo se abbiamo un buon rapporto col sindaco e l’assessore tanto meglio, ma non dobbiamo essere i questuanti che grazie alla buona relazione ottengono, bisogna che come leader scolastici diventiamo i rappresentanti di una comunità scolastica coesa nei suoi obiettivi generali e che quindi fa delle richieste generali alla politica locale, non va di volta in volta a bussare per ottenere i duemila euro, la sala o la locandina. Rinnovo l’invito che facevo prima: a me piacerebbe tanto che a partire dai territori e dalle regioni istituzioni scolastiche autonome si organizzassero, si dessero delle forme di rappresentanza (ripeto: come i Comuni fanno con l’ANCI) e queste forme di rappresentanza diventassero degli interlocutori potenti nei confronti del Governo e del Parlamento. Perché altrimenti certo possiamo fare molto nei nostri microsistemi scolastici, però dubito che poi ci scontreremo contro dei nodi e degli impedimenti di politica internazionale – peraltro non allineata alle politiche europee – che saranno molto forti.
D. Un’insegnante funzione strumentale sottolinea come gli insegnanti in questo momento hanno una motivazione molto bassa con tutto quello che sta accadendo e per i dirigenti diventa anche più difficile per i dirigenti affrontare con loro un certo tipo di discorso.
R. (Angela Pastorino)
Io sono per natura ottimista e penso che alla fine riusciremo a farcela. Cerchiamo di superare questo momento pensando ai nostri studenti!




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